iSolitudine

No, non è un nuovo gadget marcato Mela morsicata, non ha doppiofondi wireless, non è neppure termica e non la si trova negli scaffali degli store. La tazza iSolitudine è una metafora oggettivizzata per cercare di declinare, nel consueto consuntivo dicembrino, questo magmatico 2020, comodamente riciclabile – temo – anche per l’anno in arrivo. Poca ironia a parte, complice un banalissimo programmino di editing grafico, l’intento è quello di apostrofare con iSolitudine l’assunto di un quotidiano ordinario che da troppi mesi presiede quasi ogni gesto, proiettato sull’immagine/oggetto che perenne lo accompagna (su una scrivania, su un tavolino improvvisato, gli scaffali delle librerie, la vasca) . Del resto per l’amato Wittgenstein (proposizione n. 2.1 del Tractatus logico-philosophicus) “noi ci facciamo immagini dei fatti” e ancora (2.12) “l’immagine è un modello della realtà”, infine (2.141)“l’immagine è un fatto”: iSolitudine. Neologismo che non è (almeno, solo letteralmente) quello coniato anni fa dal poeta cubano Guillermo Cabrera Infante per esprimere una condizione di attaccamento e isolamento tipico dei sardi, dei siciliani, dei cubani, degli inglesi, dei corsi e degli abitanti di tutte le altre isole. Lo stesso che il Vocabolario Treccani definisce come isolitudine: s. f. condizione esistenziale di appartenenza e di isolamento propria di chi è nato in un’isola. Un’espressione sulla quale, tra l’altro, la nostra letteratura ha insistito, parlando, ad esempio, della difficoltà di essere siciliani – donde la sicilitudine, la isolitudine, la insularità d’animo – che ritroviamo in scrittori come Sciascia, Lampedusa, fino a Bufalino e altri ancora. Ma no, siamo nel 2020, tutto viene resettato, persino la logica della solitudine. Che, con la pandemia e le alterazioni sociologiche derivanti da essa, è divenuta una solitudine ipertrofica, panica, ma allo stesso tempo collettivamente sconfinata (quindi non propriamente solitudine), in quanto suscettibile di varcare l’isola di noi stessi, attraverso il digitale.
Da tempo il filosofo etico Luciano Floridi ha introdotto la definizione di onlife per descrivere l’esperienza che si vive in un mondo iperconnesso, dove non esiste più la distinzione tra essere online o essere offline.
Ma per iSolitudine potremmo intendere qualcosa di diverso. Spingerci oltre la consapevolezza di vivere nell’infosfera, assunto acquisito e vissuto anche prima di febbraio 2020. Potremmo dire che la pandemia ha forgiato un nuovo modello di solitudine, come fosse un prodotto. Un prodotto ridefinito nei connotati, una solitudine 4.0, che è ma non è allo stesso tempo, che ci confina sconfinando, che ridisegna le piattaforme di aggregazione sociale creando comunità di scopo, spostandole su una dimensione glocale. Lavoriamo su Skype, facciamo yoga con Zoom, gli aperitivi con Facetime, il cinema su Netflix, la famiglia con Whatsapp, le visite mediche su Doxy.  È un fatto. La digitalizzazione ha reso la globalizzazione irreversibile. La pandemia ha traslato i paradigmi della quotidianità in una ubiquità liquida costante. Dirompente, totalizzante.
Siamo diventati tazze iperconnesse, contenitori di vitaaltri prodotti di vite, dove si versa la modernità in polvere, per parafrasare Arjun Appadurai. Accoglitori compulsivi di un capitalismo distopico, negati di fisicità, ma affilati consumatori in assenza. Dopo il B to B, il B to C, il B to Experience, assistiamo al lancio del B to Existence, per colmare tutti i vuoti (col Buon Natale sanificato).
“L’immagine è un fatto”: iSolitudine.
  
Forse siamo troppo soli per non essere mai soli.
​(E siamo stanchi)

4 pensieri riguardo “iSolitudine

  1. -Affilati consumatori in assenza- mi piace molto. Una riflessione profonda su una situazione inaspettata. Mi piace leggerti così, anima e core.

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